Uno dei principali problemi di un impianto di produzione biogas è rappresentato da tutti quei fenomeni di usura, deterioramento e corrosione che si sviluppano all’interno del digestore e a livello di cogeneratore arrivando anche a danneggiarne componenti di primaria importanza. In particolare, l’agente corrosivo da tenere maggiormente sotto controllo è l’idrogeno solforato (H2S).
Un’elevata concentrazione di H2S, per esempio, può causare l’acidificazione dell’olio lubrificante, l’usura eccessiva di parti meccaniche e la corrosione di alcune componenti metalliche a causa dell’instaurarsi di fenomeni di condensa e di formazione di acido solforico (H2SO4).
La desolforazione atta alla riduzione e/o controllo della presenza di idrogeno solforato, può essere eseguita tramite diverse tecnologie che possono essere distinte in: biologica, chimica e fisica.
Per desolforazione biologica si intende quel processo mediante il quale viene introdotta aria all’interno del biodigestore (ossidazione biologica con ossigeno atmosferico), il solfuro di idrogeno viene trasformato in zolfo elementare mediante batteri che “respirano” ossigeno e si alimentano con acido solforico che viene poi degradato a zolfo elementare (non corrosivo per l’impianto).
La quantità di ossigeno introdotta viene regolata in modo da evitare possibili rischi dovuti alla composizione della miscela; per fare ciò vengono utilizzati dei flussometri capaci di misurare la quantità di aria immessa nell’impianto in modo continuo. Bisogna sottolineare come per ottimizzare e sfruttare al meglio tale desolforazione si renda necessario avere a disposizione all’interno delle vasche una “superfice” di appoggio atta al deposito dello zolfo elementare come ad esempio le classiche reti chiamate per l’appunto desolforanti.
In alternativa è possibile utilizzare un’installazione esterna (chiamata anche torre di desolforazione), attraverso cui il biogas passa dopo aver lasciato il digestore e prima di arrivare al cogeneratore; Il biogas viene infatti “lavato” con una soluzione di acqua e NaOH, in un processo a due fasi: pre-miscelazione in ingresso, e contatto prolungato nella torre di lavaggio.
Questi metodi sono semplici e costanti nel tempo e l’assenza di sostanze chimiche coinvolte è un chiaro vantaggio. I sistemi di desolforazione appena descritti sono in grado di rimuovere quantitativi anche molto elevati di idrogeno solforato dal biogas ma la loro compatibilità alle fluttuazioni dei contenuti di idrogeno solforato (ad esempio dovute a problematiche straordinarie) nel biogas è molto scarsa. Sicuramente, questa tecnologia non è sufficiente come unico mezzo di desolforazione se si prevedono elevate quantità di idrogeno solforato o fluttuazioni veloci.
Quando si parla invece di desolforazione chimica, che viene introdotta nel momento in cui la desolforazione biologica è assente o insufficiente, si intende l’utilizzo di composti ferrici capaci di neutralizzare l’H2S; grazie infatti al ferro trivalente presente nell’ossido ferrico Fe2O3, nell’idrossido ferrico Fe(OH)3 e nel cloruro ferrico FeCl3 è possibile ridurre la quantità di idrogeno solforato presente nel gas metano.
L’aggiunta di questi composti ferrici al digestore provoca una precipitazione del contenuto di zolfo del substrato mediante formazione di solfuro di ferro che viene rimosso dall’impianto insieme al digestato.
Tale metodo di desolforazione è relativamente economico, può essere effettuato su impianti di digestione anaerobica già esistenti ed il funzionamento, il monitoraggio e la gestione sono semplici. Questa tecnica viene in genere utilizzata nei digestori con alte concentrazioni di idrogeno solforato come prima azione insieme alle fasi successive di desolforazione biologica affiancate da un utilizzo di prodotti ferrici ridotti con scopo di mantenimento di bassi valori di idrogeno solforato nel tempo.
Vi è un ulteriore metodo di desolforazione denominato fisico nel quale è previsto l’utilizzo di filtri intercambiabili definiti “cartucce”, tali filtri possono essere composti da diversi materiali come ad esempio il poliestere, il polipropilene o ancora la cellulosa etc. Questi filtri sono capaci rimuovere i residui delle sostanze inquinanti e dei particolati residuali del biogas prodotto.
Nella desolforazione chimico-fisica infine, è previsto che il flusso di biogas venga fatto entrare dal basso di un filtro appositamente costruito e fatto passare lungo uno strato di substrato, solitamente vengono utilizzati carboni attivi o ferro granulare ma esistono altri substrati utilizzabili, che lega chimicamente i contaminanti residuali abbassando il livello di idrogeno solforato presente nel gas metano evitando picchi di H2S indesiderati al motore.
Gli ultimi due metodi di desolforazione si possono definire metodi di ultrafiltrazione dal momento che sono adatti a filtrare basse quantità di composti indesiderati proprio a causa della loro natura che li porta a dover essere sostituiti con materiale filtrante nuovo ogni qual volta la loro azione filtrante venga meno.
Per questo motivo si utilizzano i metodi di filtrazione appena citati come ultrafiltrazione in accoppiata con altri metodi per ridurre al minimo il rischio di avere picchi di componenti indesiderati al motore.
Alcuni esempi di composti ferrici utilizzati per la desolforazione chimica e chimico/fisica:

Fe(OH)3 (Idrossido ferrico polvere/granulare)

Fe2O3 (Ossido ferrico polvere)

Fe2O3 (Ossido ferrico polvere)
In definitiva possiamo affermare che il problema H2S negli impianti biogas è una problematica sicuramente controllabile, non esiste però il metodo ideale ma il metodo personalizzato per il tuo impianto volto all’ottenimento di valori desiderati e costanti nel tempo con l’incidenza economica più bassa possibile!
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